Avevano spento anche la luna – Ruta Sepetys

Avevano spento anche la luna – Ruta Sepetys

Titolo: Avevano spento anche la luna

Autore: Ruta Sepetys

Editore: Garzanti

Genere: romanzo storico

Pagine: 298

Prezzo: 12,00


Trama

Il 14 giugno del 1941, in una cittadina della Lituania, la sedicenne Lina Viskas viene portata via da casa sua in camicia da notte, insieme alla madre Elena e al fratellino Jonas. Il padre, rettore dell’università, non è in casa e probabilmente è stato già arrestato insieme a molti altri in facoltà. L’NKVD, le forze armate russe, concedono loro venti minuti per prendere le cose più importanti, prima di stiparli su un camion con vicini di casa e conoscenti spaventati e picchiati. Nessun adulto sa dove li stanno portando, ma tutti hanno una convinzione: dovunque sia, sarà difficile tornare. Migliaia di cittadini vengono trasportati fino alla stazione e gettati su vagoni di vari treni, usati di solito per il bestiame. Inizia così il lungo viaggio dei deportati lituani, colpevoli di essere creduti anti-sovietici da Stalin.

Trattati come se fossero bestie, lasciati senza cibo né acqua per giorni, alcuni addirittura giustiziati freddamente per essersi ribellati o per essere troppo deboli per continuare il viaggio, i prigionieri vivono le prime settimane stipati dentro vagoni troppo piccoli, soffrendo fame, freddo, sporcizia e malattie. E’ un tragitto lungo e desolato in mezzo al territorio russo fino alla Siberia, dove il treno di Lina si fermerà ai campi di lavoro sui monti Altaj. Qui, divisi in baracche fatiscenti, iniziano a lavorare con turni massacranti, per costruire edifici e coltivare barbabietole per il governo: sono lavori duri e massacranti che non vengono risparmiati a nessuno, né vecchi né bambini, e che vengono compensati con una piccola razione di pane, quando va bene. Bevono acqua piovana, si lavano nella neve, soffrono il freddo, prendono lo scorbuto, muoiono e vengono gettati nella neve. Un giorno dopo l’altro.

Eppure Lina e la sua famiglia riescono a sopravvivere, grazie anche a quel poco cibo in più che gli viene passato da Andrius, un giovane della sua età che ha conosciuto sul treno. La reazione di Lina, quando apprende il motivo dei favoritismi rivolti alla madre di Andrius, è di disprezzo, ma in una situazione surreale e drammatica come quella che stanno vivendo, la ragazza dovrà imparare che anche le decisioni più vergognose non possono essere colpevolizzate. Dopo quasi un anno di lavori forzati nei campi, ormai decimati e smagriti, alcuni gruppi di prigionieri vengono costretti dinuovo a salire su dei camion verso un’altra meta. Lina è sulla lista, Andrius no. La separazione tra i due amici è straziante, anche perché il ragazzo è a conoscenza di alcune cose che non vuole rivelare alla ragazza, come l’ubicazione del padre e le accuse a lui rivolte, e la destinazione finale del nuovo viaggio della famiglia Viskas. Quando sale ancora su quel treno, Lina non ha idea che possa esserci qualcosa di peggio di quello che hanno vissuto in quegli orribili mesi.


Autore

Ruta Sepetys è una scrittrice americana figlia di rifugiati lituani. Ha esordito nel 2011 con “Avevano spento anche la luna“, basato su storie vere raccolte durante i suoi studi. Ha poi pubblicato opere di successo sia per adulti che per ragazzi, tra cui “Una stanza piena di sogni“, “Ci proteggerà la neve” e “Il cielo non catene“.


Recensione

Il prete alzò lo sguardo, spruzzò dell’olio e si fece il segno della croce mentre il nostro treno si allontanava sferragliando. Stava dando l’estrema unzione.

Ho appena chiuso il libro della Sepetys e sono senza parole, solo un miscuglio di sensazioni pulsanti e dolorose. Ho letto tanti romanzi che hanno cercato di documentare i più grandi genocidi commessi dall’uomo, e di solito l’emozione più comune è quella di compassione e dolore. La storia di Ruta Sepetys mi lascia invece in bocca un sapore strano, acido di rabbia e incomprensione: un dispiacere che deriva più che altro dalla mia quasi totale ignoranza dei fatti che ho finito di leggere. Avevo un’idea piuttosto vaga delle deportazioni subite dalle popolazioni balcaniche nei famosi gulag, ma non mi sono mai davvero documentata. Voglio dire, si, certo che so che sono esistiti campi di lavoro russi, so che sono morte persone, ma quando? Negli anni ’40. Ma quindi nello stesso momento dell’Olocausto? Certo. Un attimo, ma i sovietici non erano alleati degli americani quando entrarono nei lager per liberare gli ebrei? Si. Allora questo significa che mentre liberavano da un parte, rinchiudevano dall’altra? Esattamente. Ecco, questo fa male.

Fa male rendersi conto di aver saltato una parte di storia e di aver davvero creduto che le stragi naziste siano state un caso irripetibile. E quello che mi dispiace ancora di più è pensare che come me, troppe persone colleghino quegli anni infamanti tra il 1940 e il 1950 all’Olocausto degli ebrei, senza sapere che nello stesso momento, ad alcune centinaia di chilometri di distanza, un altro massacro stava avvenendo all’insaputa del mondo intero. È d’obbligo quindi una breve spiegazione storica: il 14 giugno del 1941, dopo che l’Unione Sovietica aveva annesso Lituania, Lettonia e Estonia, Stalin iniziò le deportazioni di tutti quelli che vennero reputati antisovietici. In più riprese, migliaia di persone furono trascinate fuori dalle loro case e condotte attraverso la Russia in campi di lavoro in Siberia. Si calcola oggi che ne morirono quasi venti milioni: un terzo della popolazione balcanica.

I sopravvissuti al viaggio, che arrivavano nei gulag, furono costretti a lavorare per i sovietici dai dieci ai quindici anni prima di essere liberati e avere il permesso di tornare in patria. Le condizioni in cui vennero trasportati e obbligati a lavorare per il governo russo si avvicinano molto a quelle degli ebrei nei Lager. Nello stesso momento in cui i Sovietici si alleavano con gli americani per liberare i prigionieri dei campi di concentramento, all’interno del loro paese, nascosti dalla neve e dall’isolamento, lituani, estoni e lettoni subivano una sorte simile. Eppure il mondo non l’ha saputo per anni. Anche una volta tornati in patria, i prigionieri furono costretti dalle autorità russe a tacere la verità per evitare ulteriori arresti. E così, mentre il mondo piangeva i morti nei lager, venti milioni di cadaveri venivano sepolti nella neve siberiana.

Ruta Sepetys è figlia di un lituano che riuscì a fuggire negli Stati Uniti prima della cattura. Il lavoro di ricerca, di studio, di raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti, rende oggi questo libro importante e prezioso: come i disegni di Lina tentavano di arrivare al padre e a chiunque fosse interessato a sapere cosa stava accadendo nelle steppe siberiane, allo stesso modo questo libro tenta di riportare l’attenzione su un pezzo di storia al quale forse non è stato dato il giusto peso. Lo stile della scrittrice è coinvolgente e scorrevole; la storia, seppur romanzata e incentrata su personaggi inventati, rivela eventi realmente accaduti, che l’autrice ha scoperto tramite conversazioni con superstiti, parenti o amici, o attraverso lo studio di lettere, disegni e documenti che i prigionieri hanno tenuto nascosti in attesa di poterli esporre alla pubblica attenzione. E’ un libro commovente e intenso, di quelli che fanno pensare e che credo sia giusto leggere, anche se fa male al cuore. Inutile negare che alcune cose siano accadute: si rischia solo di permettere che si ripetano. Occorre mettere da parte la paura che incutono, accettarle e comprenderle per poterle superare e far si che la storia non si replichi. Allo stesso modo in cui Lina e i suoi compagni di viaggio devono superare la paura che provano, per dimostrare che non sono colpevoli di nulla, per riuscire a mantenere la loro dignità e non lasciarsi spezzare dall’ingiustizia.

– Andrius, sono…spaventata

– Non devi esserlo. Non devi concedergli niente, Lina, nemmeno la tua paura.

Lo stile con cui la Sepetys racconta le vicende è incisivo, ma non cruento, forse perché raccontato da una ragazzina. Ma è comunque esplicito e vivido e capace di descrivere perfettamente le sensazioni provate dai prigionieri. L’odio profondo radicato nei sovietici contro quelli che chiamano “porci fascisti” è percepibile fin dalle prime pagine, in cui è già chiaro di avere davanti la cronaca di una morte annunciata.

– Venti minuti – gridò l’agente. Buttò la sigaretta accesa sul pavimento pulito del nostro soggiorno e la schiacciò sul legno con lo stivale. Stavamo per diventare sigarette.

Ti chiedi spesso, durante la lettura, come possa un essere umano odiarne tanto un altro che è esattamente uguale a lui. Perché qui, a differenza delle stragi naziste, non c’è nemmeno la convinzione di razza superiore e inferiore, di pulizia etnica, ma solo la necessità di far sparire ingombranti e pericolosi nemici del potere, sfruttandoli in una nuova forma di lavoro che forse, nella testa degli aguzzini aveva lo scopo di migliorarli. La storia di Lina è la storia di chi ha sofferto in silenzio per anni cercando di non dimenticare, di imprimere nella memoria ogni singolo particolare delle atrocità vissute, in attesa di poterlo poi in futuro mostrare al mondo intero. Per fare giustizia e ottenere quel rispetto che gli era dovuto. Una delle cose che fa più male ai deportati, infatti, è di essere totalmente inesistenti; sembrava che il mondo non si fosse accorto di quello che stava accadendo nei gulag, oppure che avesse voltato la testa per guardare altrove. “Avevano spento anche la luna” è un libro duro, qualcuno penserà spiacevole da leggere, ma la storia spesso è crudele e non per questo va ignorata. E’ stata una lettura interessante ed educativa. Apre gli occhi su un argomento poco discusso e riaccende una luce che è stata spenta per troppo tempo.


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