Fino a quando la mia stella brillerà – Liliana Segre

Fino a quando la mia stella brillerà – Liliana Segre

Titolo: Fino a quando la mia stella brillerà

Autore: Liliana Segre con Daniela Palumbo

Editore: Rizzoli

Genere: narrativa storica

Pagine: 174

Prezzo: 9,00

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Trama

La sera in cui a Liliana viene detto che non potrà più andare a scuola, lei non sa nemmeno di essere ebrea. In poco tempo si ritrova prima emarginata, poi senza una casa, infine in fuga e arrestata. A tredici anni viene deportata ad Auschwitz. Liliana parte il 30 gennaio 1944 dal binario 21 della stazione Centrale di Milano e sarà l’unica bambina di quel treno a tornare indietro. Ogni sera nel campo cercava in cielo la sua stella. Poi ripeteva dentro di sé: finché io sarò viva, tu continuerai a brillare. La forza della testimonianza, perché gli orrori della Storia non vengano dimenticati.


Autore

Liliana Segre è una politica italiana, sopravvissuta all’Olocausto. Dopo le leggi razziali del 1938 fu arrestata a tredici anni e deportata ad Auschwitz, dal quale uscì solo a guerra finita. Dopo tanti anni di silenzio, negli anni ’90 decise finalmente di raccontare la sua esperienza, in modo che potesse servire da monito alle nuove generazioni. E’ stata nominata senatrice a vita. Tra le sue pubblicazioni più significative troviamo “La memoria rende liberi”, “Scolpitelo nel vostro cuore”, “Fino a quando la mia stella brillerà“.


Recensione

Come ogni anno, quando si avvicina il Giorno della Memoria vado in cerca di un libro che mi aiuti a ricordare. Ne ho letti tanti, eppure ogni volta il dolore e la frustrazione che mi assalgono sono gli stessi. Ma sono libri che consiglio a tutti, anche perché ce ne sono davvero per ogni tipo di lettori e per ogni età, e sono convinta che per quanto siano tristi è giusto ascoltare quello che hanno da dire. E Liliana Segre me lo ha confermato con questo suo libricino, soffermandosi sulla rabbia e sulla tristezza che ha provato quando è tornata a casa dal campo e ha scoperto che il resto delle persone non voleva davvero sapere cosa le era stato fatto. Persino i suoi parenti rimasti vivi non hanno mai chiesto dettagli e hanno cercato di convincerla a dimenticare e andare avanti, come se nulla fosse successo. Forse convivere con una persona che ogni giorno ricordava loro le atrocità di quel periodo era troppo pesante per tutti quelli che volevano solo ritornare a vivere.

Nessuno voleva ascoltare per davvero. La guerra era finita, bisognava andare avanti. Ma io no, io restavo ad Auschwitz. Non riuscivo a venire via dal mio inferno. E tantomeno a parlarne.

Ma Liliana, che ha vissuto nel campo di Auschwitz negli anni della sua adolescenza e che ha guardato con occhi ingenui l’oscurità che la avvolgeva, non può dimenticare, non riesce a capire, non sa accettare tutte le piccole, grandi violenze quotidiane di quei mesi. Quando ho scelto questo titolo, per leggere per la prima volta la Segre, che tante volte ho ascoltato parlare con quel suo tono pacato ma risoluto, mi aspettavo un resoconto della vita del campo, un po’ come già mi era capitato con Primo Levi. Invece ho trovato un racconto diverso, che pur essendo meno esplicito e pur relegando a poche pagine la sua esperienza ad Auschwitz, ha saputo toccare la mia coscienza come solo Anna Frank aveva saputo fare.

Lo stile di scrittura che la Palumbo ha scelto per trascrivere su carta i ricordi della Segre è semplice, quasi fanciullesco, probabilmente per ampliare il target di lettori a cui era diretto (lo trovo perfetto per i bambini e lo utilizzerei nelle scuole!) ma anche per farci entrare nella mente di una bambina che ha visto il mondo cambiare. Nella prima parte del libro vediamo Liliana a otto anni, che cresce con l’amore sconfinato di un padre che ha perso troppo presto la moglie, con quattro nonni che la adorano e alcune care amiche di scuola. Liliana ama la sua città, ama andare in vacanza al mare d’estate e la ditta i tessuti di famiglia dove si immerge nello stoffe colorate. Ama andare al cinema con il nonno, mangiare le torte che prepara la loro cuoca e soprattutto ama la scuola. Quella che un giorno, improvvisamente, senza una spiegazione, le viene negata.

«Sei stata espulsa dalla scuola»

Espulsa.

Quel giorno segnò un prima e un dopo nella mia infanzia. Il prima della vita di Liliana bambina, allegra e serena, e il dopo, di Liliana bambina ebrea, espulsa, poi esclusa, poi internata.

Forse è stato proprio immaginare la piccola Liliana in una vita comoda, serena, “normale”, che ha reso il cambiamento tanto straziante. E’ come se mi avesse messo davanti agli occhi la felicità e poi me l’avesse strappata. Proprio come hanno fatto con lei. La Segre rimarca anche un altro aspetto della tragedia dell’olocausto che forse a volte viene offuscato dai racconti delle atrocità che sono state commesse. Quando uscirono le leggi razziali e gli ebrei furono privati delle loro libertà e dei loro diritti, messi da parte, esclusi dalla società, moltissimi italiani loro vicini, conoscenti, clienti, lasciarono che tutto accadesse in silenzio, nella più totale indifferenza. La maggior parte delle persone non li difese, anzi prese le distanze da loro come se non li avesse mai conosciuti, come se avessero la peste. Ed è stata proprio questa reazione a colpire l’animo di una bambina di dieci anni.

Per tutti era come se niente fosse. L’indifferenza fa male. E’ l’arma peggiore. La più potente. Perché se qualcuno ti affronta poi difenderti. Ma se intorno a te c’è il silenzio, come fai a difenderti?

Ma Liliana, in questo racconto, ama ricordare quelli che lei chiama i “Giusti”, quelle rare persone che offrirono loro aiuto per affetto o anche solo per giustizia. Susanna, la cameriera che attende il loro ritorno curando la loro casa. Il fornitore di tessuti della ditta che si offrì di portare via Liliana e tenerla con le sue figlie durante i rastrellamenti. Anime giuste, che misero in pericolo la loro vita per aiutarli, nasconderli, proteggerli. C’è un prima e un dopo Auschwitz in questo libro, che la Segre ha deciso dopo tanti anni di silenzi di mostrarci: un primo fatto di indifferenza, che avrebbe potuto cambiare l’andamento della Storia, e un dopo fatto di silenzio, in cui i sopravvissuti non hanno ricevuto forse quel sostegno e quella comprensione che li avrebbe aiutati a tornare davvero a casa, a sentirsi di nuovo esseri umani, dopo che i nazisti erano riusciti così bene e con tanto impegno a togliere loro la cosa più cara che abbiamo, l’umanità, a renderli non più esseri umani ma corpi. Inutili e fragili. Indegni. Indesiderati.

Stück… si chiamavano così, facendo seguire a questa parola i numeri tatuati sul braccio. In tedesco significa “pezzo”. Non eravamo più umani. Ad Auschwitz diventammo…pezzi.


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