Storia di una ladra di libri – Markus Zusak
Titolo: Storia di una ladra di libri
Autore: Markus Zusak
Editore: Sperling & Kupfer
Genere: romanzo
Pagine: 563
Prezzo: 7,50
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Nel 1939 la Germania è grigia e oscura: la Morte non ha mai dovuto lavorare tanto. Quasi tutti gli ebrei hanno già lasciato le città, quando due bambini tedeschi viaggiano su un treno per Monaco insieme alla madre, diretti verso la famiglia adottiva che potrà sfamarli. Uno solo di loro arriverà però a destinazione, Liesel Meminger, di nove anni. Il fratellino morirà infatti durante il viaggio, di malattia, fame e freddo. Sarà proprio durante questo primo incontro con la morte che Liesel diverrà una ladra di libri, quando raccoglierà un piccolo libriccino caduto a uno dei becchini venuti a seppellire suo fratello. Il “Manuale del necroforo”, tra le sue mani, assume un significato profondo. E’ il simbolo della perdita delle due persone più care che ha: il fratello e la madre.
Arrivata a Molching, Liesel inizia una nuova vita, fatta di paure e incubi che le tolgono il sonno. La nuova mamma, Rosa Hubermann, è una donna seria e rigida che ravviva la casa con il suo vocabolario sboccato e la sua capacità di prendersela col mondo intero senza bisogno di una ragione. Andare d’accordo col nuovo papà, Hans Hubermann, si rivela invece naturale fin da subito. E’ lui che, ogni notte, si siede pazientemente accanto al letto della ragazzina, aspettando che gli incubi passino e il sonno le dia un po’ di pace. Con lui, Liesel impara finalmente a leggere, scoprendo la forza delle parole e un amore incontenibile per i libri, che la porterà a rubare ancora e ancora.
Il 20 aprile 1940 è il compleanno del Führer e la città in festa organizza un falò propagandistico in cui decide di bruciare tutto ciò che viene considerato antipatriottico. Quella notte, dalle fiamme, Liesel ruberà dinuovo un piccolo libro. Ma tanti sono ancora i volumi da salvare e Liesel, seppur tedesca, comincia a formulare l’idea che tutto quello che le è accaduto di brutto (il padre portato via da estranei, la povertà, la fame, la morte del fratello, la mamma che deve separarsi da lei per poi sparire nel nulla) tutto sia colpa del Führer. Nel frattempo anche a Molching la guerra si fa sentire: lavoro non ce n’è più, mamma Hubermann perde gli ultimi clienti e papà Hans lotta contro la sua coscienza che lo ha tenuto fuori dal Partito Nazista, dandogli la pessima fama di sostenitore di ebrei.
Liesel cerca di opporsi alla nuova povertà in compagnia del suo più grande amico Rudy Steiner, il perfetto tedesco dai capelli color limone, con cui condivide le partite di calcio, la fame e il furto. Finché nel novembre del 1940 alla porta degli Hubermann si presenta quello che resta di un ragazzo di ventiquattro anni, Max Vandenburg. E papà Hubermann lo fa entrare. Nascondere un ebreo in casa equivale a un suicidio, ma Rosa Hubermann si preoccupa solo di preparagli la minestra ogni giorno e Liesel di prestargli i suoi libri. Insieme, Max e la bambina si ritroveranno a passare ore nella cantina, legati dalle parole. Ma quanto si può sopravvivere nella Germania sotto bombardamento, con un uomo nascosto in casa?
Autore libro
Di origine tedesco-austriaca, Markus Zusak è uno scrittore australiano i cui genitori sono emigrati in Australia alla fine degli anni Cinquanta. I primi romanzi, tra cui “A quindici anni sei troppo vecchio” e “Io sono il messaggero“, hanno ricevuto diversi premi in tutto il mondo, ma è stato solo con “La bambina che salvava i libri” che ha ottenuto il vero successo. Dopo la trasposizione cinematografica, il libro è stato rieditato con il nome “Storia di una ladra di libri”. Nel 2018, dopo più di dieci anni esce l’ultimo romanzo di Zusak “Il ponte d’argilla”.
Recensione
Oggi è il Giorno della Memoria, istituito nel 2005 dalle Nazioni Unite, per ricordare un evento storico come ne sono stati vissuti pochi dall’umanità, l’Olocausto. Il 27 gennaio del 1945 l’Armata Rossa liberava Auschwitz, e con esso i pochi superstiti, prigionieri ebrei e politici. Mentre guardo la libreria vedo saltar fuori con prepotenza i libri che ancora oggi, dopo settanta anni, vengono letti in tutto il mondo per non dimenticare: dal “Diario” di Anna ai romanzi di Primo Levi, fino a “L’amico ritrovato” di Fred Uhlman. Tutti più o meno autobiografici, ci mostrano la storia vista con gli occhi degli ebrei, quelli che sono passati per i campi di concentramento o quelli che sono riusciti a salvarsi prima di essere arrestati. Poi l’attenzione mi cade su questo romanzo di Markus Zusak “Storia di una ladra di libri” e mi torna in mente la domanda che mi sono fatta spesso, leggendo il diario di Anna Frank. Ma davvero tutti i tedeschi ariani erano d’accordo con le scelte della loro nazione?
Le vicende di questo libro sono romanzate, anche se Zusak prende spunto dai racconti dei genitori, di origine tedesca, che decisero di lasciare la Germania per trasferirsi in Australia negli anni ’50. In questa storia raccontata in modo davvero singolare i protagonisti sono tedeschi ariani e assistono, come tutti i loro concittadini, ai cambiamenti portati dal regime. Ma li condividono? La storia dirà di no. Hubermann non è uno di quegli uomini che si sono svegliati una mattina pensando che il loro vicino di casa non fosse più tedesco, anzi non fosse più nemmeno un “uomo” ma soltanto un “ebreo” . Hans Hubermann è quello che si rifiuta di iscriversi al Partito Nazista e ridipinge la porta del Signor Kleinmann imbrattata con la stella ebraica. Hans Hubermann ha un debito d’onore con un uomo che gli ha salvato la vita durante la Prima Guerra Mondiale: così, quando il figlio di quel soldato si presenta alla sua porta, papà Hans mette in pericolo l’intera famiglia pur di aiutarlo.
Con il viso ben rasato e i capelli sistemati a dovere, era uscito dall’edificio come un uomo nuovo. Come un tedesco. Un momento, lui era tedesco. O, più precisamente, lo era stato.
Lo stile di Markus Zusak è davvero peculiare e immagino che a molti possa non piacere. La storia è frammentata continuamente dai pensieri del narratore, che mi sento di poter dire senza fare spoiler (visto che si capisce dopo appena 5 pagine) che si tratta della Morte stessa. Spesso ironica, ma molto più spesso malinconica e ben più triste di quello che l’essere umano creda, la morte si lamenta degli straordinari fatti durante questa ennesima guerra. Il suo è un racconto schietto, veloce, quasi freddo, che molte volte anticipa cosa accadrà ai personaggi svariati capitoli prima di descriverlo. Anziché smorzare l’interesse, questo espediente crea ancora più tensione e drammaticità facendoti proseguire la lettura con ansia e dolore, aspettando una morte annunciata e inevitabile, ben sapendo che non ci sarà un lieto fine per alcuni personaggi .
Ma si tratta della Seconda Guerra Mondiale, siamo nella Germania nazista: non può esserci nessun lieto, nemmeno quando siamo noi a inventare la storia. E forse eravamo pronti. Amo la caratterizzazione che lo scrittore ha dato alla Morte, che non ha neppure la forza di fermare lo sguardo sugli uomini troppo a lungo, sapendo che prima o poi dovrà tornare per prenderli tutti e così trova qualcos’altro su cui spostare la sua attenzione: i colori del cielo nel momento in cui scende sulla terra per fare il suo lavoro. Ogni morte diviene un colore… e quanto spesso in quegli anni il suo cielo è stato grigio e scuro.
Gli esseri umani superstiti.
I sopravvissuti.
Sono quelli che non posso guardare, sebbene in molte occasioni non riesca a evitarlo. Cerco deliberatamente i colori per tenerli lontani dalla mia mente.
Ma è la guerra, e lei è la morte: inutile girarci intorno. È molto meglio affrontare di petto una situazione comunque insostenibile, anche se di sicuro la cosa la fa soffrire.
La mia unica salvezza è lo svago. Mi mantiene sana di mente. Mi aiuta a tirare avanti, tenendo conto che faccio questo lavoro da moltissimo tempo
Ribadisco che la scrittura può non piacere. Io personalmente l’ho trovata originale e attraente. Le piccole descrizioni, all’inizio di ogni capitolo e spesso anche dei vari paragrafi, ti danno subito un’idea di ciò che stai per leggere e soprattutto dell’opinione che la morte si è fatta dell’intera vicenda. Di tutte le storie raccolte nel suo lungo lavoro, quella della ladra di libri le è rimasta nel cuore ed è toccante il modo in cui racconta il dolore della bambina e alla fine quello delle migliaia di persone raccolte dai campi di concentramento. Le descrizioni del narratore sono vivide e attente, grondano aggettivi e similitudini, come se osservando le scene da una prospettiva diversa fosse in grado di notare ciò che sfugge all’occhio umano.
C’è un’aria che sembra di plastica, un orizzonte simile a colla che s’indurisce.
Ci sono cieli fatti di persone, bucati e gocciolanti, e morbide nuvole color carbone, che pulsano come cuori neri.
E poi c’è la morte, che vi si fa strada.
In superficie, rigida, inflessibile.
Al di sotto, disfatta, estenuata.
Mi è piaciuto molto il fatto che la Morte si rivolga direttamente al lettore, durante il racconto, coinvolgendolo con domande e offrendogli piccole anticipazioni. In ogni caso, aldilà del modo in cui è stato scritto, ho amato profondamente questo romanzo per due motivi. Uno, mi ha ricordato che non tutti i tedeschi hanno partecipato con approvazione a quello che viene definito come il più grande genocidio di massa. Alcuni di loro, (forse pochi, forse tanti, non lo sapremo mai) hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Magari mentre nascondevano un ebreo nella loro cantina o mentre gettavano ai prigionieri un pezzo di pane durante le marce forzate verso i campi di concentramento. Molti di questi tedeschi sono stati giustiziati dal loro stesso popolo, altri sono morti durante i bombardamenti degli alleati. Certamente in modo meno tragico dei prigionieri dei lager, ma sono morti comunque. E questo è un fatto.
Due, Liesel non ruba i libri solo per salvarli dai nazisti o perché ne ha bisogno. Liesel ruba le parole perché sono l’unica cosa con cui riesce a combattere il dolore nelle notti insonni con papà Hans. E crescendo ne comprende la forza e il potere. Un potere che può essere usato per il bene o per il male a seconda di come vengono utilizzate. La ragazzina arriverà addirittura a odiarle, quando capirà che sono state proprio le parole la forza del Führer, la sua capacità di trascinare un intero popolo in una pulizia etnica senza senso. Ma le stesse parole l’hanno anche salvata durante le notti insonni con papà Hubermann o con Max, finché, quell’ultima notte, le hanno salvato la vita.
Liesel imparerà a usarle per raccontare la sua storia, quella di una piccola ladra di libri, e dei suoi affetti, della verità, della giustizia e delle ingiustizie. del bene e del male. E in finale è per questo che ho apprezzato così tanto il libro: mi ha ricordato le vittime dell’Olocausto, la loro disgrazia e i loro dolori; mi ha dimostrato che c’era ancora, in un paese devastato, qualche anima disposta a non seguire una stupida ideologia. Ma soprattutto, mi ha dimostrato il valore delle parole e l’importanza di usarle nel modo corretto. Perché possono essere la nostra memoria (e la nostra sopravvivenza dipende da questa), ma possono anche sollevare gli animi nel modo sbagliato, portando a errori inestimabili. E Liesel, che a tredici anni lo ha già capito, terminerà il racconto della sua vita con una sola frase
Ho odiato le parole e le ho amate,
e spero che siano tutte giuste.
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