Quello che non ti dicono – Mario Calabresi

Quello che non ti dicono – Mario Calabresi

Titolo: Quello che non ti dicono

Autore: Mario Calabresi

Editore: Mondadori

Genere: romanzo

Pagine: 216

Prezzo: 17,00

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Trama

L’Italia sta per affrontare quello che nessuno avrebbe mai immaginato neanche nel peggiore degli incubi. Siamo a pochi giorni dal primo contagio di Lodi; a pochi giorni dall’inizio di quella pandemia che renderà difficili gli spostamenti e rallenterà ogni ricerca. Mario Calabresi è alla presentazione del suo ultimo libro, quando una donna lo avvicina presentandosi come Marta e chiedendogli di ricostruire il ritratto di suo padre. Da quel momento, tra le difficoltà del momento e l’iniziale ritrosia, il giornalista e scrittore si tufferà di nuovo negli anni Settanta, alla ricerca di fatti, informazioni, opinioni personali, lettere e fotografie su uno dei più tristi e poco conosciuti sequestri degli anni di piombo.

Marta è nata il 24 dicembre 1975, otto mesi dopo che suo padre, Carlo Saronio, appena ventiseienne, è stato rapito da una banda armata che fa capo a Potere Operaio (del quale lui stesso era simpatizzante) e che otterrà un riscatto di 470 milioni di lire, non restituendo mai il ragazzo. La famiglia è distrutta; Silvia, la mamma di Marta, ha appena scoperto di essere incinta, amava Carlo e avevano deciso di sposarsi. Dopo tre anni di attesa e dolore, il corpo del ragazzo viene ritrovato sepolto in un canale. A casa Saronio si smette di parlare di Carlo; a Marta nessuno mai racconta di quel papà che avrebbe tanto voluto conoscere. Così, dopo quarant’anni di silenzi, decide che è arrivato il momento di fare pace col passato e scoprire di chi davvero è figlia.


Autore

Mario Calabresi è giornalista e scrittore italiano. Nato nel 1970, figlio del Commissario di Polizia Luigi Calabresi, assassinato nel 1972 durante le indagini sulla strage di Piazza Fontana, Mario si è dedicato quasi da subito al giornalismo. Ha lavorato inizialmente per ANSA come cronista parlamentare, poi a la Repubblica e successivamente a La Stampa, come inviato speciale durante l’attacco alle Torri Gemelle. Torna a la Repubblica come direttore fino agli inizi del 2019. Oltre a “Spingendo la notte più in là“, ha pubblicato con uguale successo “La fortuna non esiste“, “Cosa tiene accese le stelle“, “La mattina dopo” e “Quello che non ti dicono“.


Recensione

Questa volta è una mail quella che riporta Mario Calabresi in quegli anni Settanta che ha percorso fino allo sfinimento, cercando riposte a domande vecchie di cinquant’anni. Eppure, con sua sorpresa, c’è ancora qualcuno che queste domande le conserva con cura, perché le risposte non sono mai arrivate. Si tratta di una donna di nome Marta e di suo cugino Piero, sacerdote ad Algeri, due bambini nati in una famiglia infelice alla quale il terrorismo ha tolto un figlio appena ventiseienne: Carlo Saronio.

Quel nome mi dice qualcosa ma non riesco a collegarlo a nulla, eppure la storia degli anni Settanta l’ho frequentata tanto, anche troppo.

Quando gli arriva la strana richiesta di far luce sull’ennesimo morto di quegli anni, Calabresi pensa di rifiutare, non vuole tornare a scavare in quel periodo che ha cambiato per sempre la sua vita. Fortuna per noi (e per Marta), alla fine si è lasciato coinvolgere dalla necessità della donna di capire chi fosse davvero quel padre che non ha mai conosciuto e di cui nessuno vuole parlarle. E’ il secondo libro di Calabresi che leggo sul terrorismo ed entrambe li ho trovati splendidi e ben scritti. Con “Spingendo la notte più in là” ripercorre la storia della sua famiglia e del nostro paese, ricordando a chi l’ha dimenticato e spiegando a chi non l’ha mai saputo, come e perché è stato ucciso suo padre, il Commissario di Polizia Luigi Calabresi, in un attentato nel 1972. Il periodo storico è lo stesso, ritroviamo la descrizione di un paese devastato dalle prime bombe, dalle sommosse popolari, dalle prime rivendicazioni delle Brigate Rosse, ma soprattutto, come in questo caso, dalla triste realtà dei sequestri di persona che imperversò tra gli anni ’70 e ’80.

Anche in questo romanzo Calabresi ha una scrittura toccante, pacata, ma lucida e incisiva, sempre scorrevole e delicata, nel rispetto di tutte le persone che hanno sofferto. Il più delle volte non giudica e non condanna, riferisce solo ciò che è successo e lascia al lettore la scelta. Questa volta, non essendo costruito intorno a se stesso oppure intorno alle figure familiari di Carlo Saronio, che restano sempre in secondo piano, manca forse quell’empatia che si è creata nel precedente libro tra il lettore e il piccolo Mario. Tutti i protagonisti, Marta, Silvia e Piero, sono figure che restano sullo sfondo: chi perché ha relegato il dolore in un angolo nascosto per tanto tempo, chi perché non era ancora nato. Ma questo libro non vuole parlare del dolore di nessuno, semplicemente tenta di mettere insieme i tasselli sparsi in questi ultimi cinquant’anni, per ricostruire una figura che Marta e suo cugino non hanno avuto la possibilità di conoscere e che vorrebbero capire con quali occhi va guardata. Ne deriva una cronaca storica degli avvenimenti più importanti di quella decade, in cui il giornalista ci fornisce una serie di informazioni sui principali fatti che riguardano il terrorismo, in modo che anche chi non li abbia vissuti, come me, ne abbia un quadro piuttosto chiaro. E’ un lavoro difficile, che dà pochi frutti: è passato tanto tempo, molte delle persone interessate sono morte e tante altre non hanno mai raccontato la verità. Tutto quello che Calabresi può fare è cercare di costruire un puzzle meno sfocato possibile per dare alla ragazza qualcosa in cui credere.

Per capire, bisognerebbe immergersi in un’acqua scura dove riuscire a dare un nome preciso alle cose è impresa impossibile. Ricostruire nei dettagli quello che è successo negli anni Settanta è un’illusione.

La figura di Carlo Saronio risulta fin da subito contraddittoria: un ragazzo buono ma corroso da un contrasto doloroso. Cresciuto in una delle più ricche famiglie di Milano, Carlo ha sempre sentito come un peso il suo stato economico e visto i suoi privilegi come qualcosa da contestare. Si sentiva diverso, si vergognava e cercava disperatamente di essere “normale”. In questo disagio, la personalità di Carlo si sdoppia: da un lato è convinto di poter costruire una società migliore attraverso movimenti pacifici, seguendo la figura di Gianni Tognoni, un padre francescano che lo introduce nella periferia milanese degradata, dove Carlo si presta a dare lezioni serali ai bambini più poveri. Dall’altro lato, entra a far parte di Potere Operaio, abbracciando la militanza violenta di Carlo Fioroni, appartenente ai Gruppi d’Azione Partigiana e poi alle Brigate Rosse, che lui inizia a finanziare con i soldi della famiglia, senza però mai partecipare alle sommosse. Carlo è un’anima buona, contraria alla violenza, ma fortemente contestatrice della società che divide i ricchi dai poveri

Pensavo che la vicenda di suo padre si potesse leggere in una tensione tra ricchezza e povertà, tra centro e periferia. Ma quando Carlo arriva in periferia apre una nuova contrapposizione: da un lato l’opzione di un impegno non violento, dall’altro l’eversione. E al bivio non sceglie una strada ma le percorre entrambe.

Così, Carlo si divide per anni tra due fuochi, nascondendo a tutti, compresa la famiglia e la stessa Silvia, di cui era follemente innamorato, le sue conoscenze con esponenti dei Gruppi d’Azione e delle BR. Quello di Calabresi diventa il tentativo di discolpare un ragazzo che, quando venne fuori la verità, fu accusato addirittura di aver organizzato il suo stesso sequestro per estorcere altri fondi alla famiglia. Sono stati anni terribili per i Saronio e per Silvia, anni di dubbi, di ipotesi mai confermate e soprattutto di speranza che un giorno Carlo sarebbe tornato raccontando la verità più atroce che si poteva immaginare: che quell’amico che aveva spesso nascosto in casa perché già ricercato dalla polizia e al quale aveva versato varie somme di denaro, alla fine decise di tradirlo. Bisognoso di finanziamenti per creare un nuovo gruppo terroristico, che forse Carlo si rifiutò di concedere, Fioroni organizzò il sequestro affidandolo a una banda di criminali comuni. Come dimostrerà il ritrovamento del corpo, tre anni dopo, il rapimento non andò come previsto e il ragazzo rimase ucciso. Quando il ragionier Damaschi, rappresentante della famiglia Saronio, comunicò all’anziana madre che le ossa trovate nel canale erano certamente di suo figlio, la donna rispose «Speriamo». A dimostrazione della necessità di tutti di chiudere una storia troppo dolorosa e poter finalmente seppellire quel figlio il cui nome era stato alla fine riabilitato dalla morte.

Calabresi riesce a tracciare un quadro abbastanza preciso della vicenda, ascoltando tutti quelli che conoscevano Carlo e che in qualche modo furono spettatori per tanti anni: Silvia, che finalmente davanti al bisogno della figlia decide di esporsi, il sacerdote con cui collaborava in periferia, alcuni suoi insegnanti, esponenti delle Forze dell’Ordine che parteciparono al caso. Con estrema precisione ci trascina in un’Italia devastata dal terrorismo, colpita nel cuore di famiglie comuni, lacerata da se stessa. E lo fa con una maestria non comune, con la capacità di appassionare il lettore a un periodo storico che non gli appartiene, a dimostrazione del fatto che se le parole vengono usate bene ottengono il risultato voluto.

Quella di Carlo Saronio è la storia di un tradimento meschino e senza scrupoli, di un’amicizia fondata su ideali sbagliati; è la storia di una generazione che ha vissuto contraddizioni interne e che a volte si è trovata invischiata in ambienti oscuri e violenti. E’ anche la storia di una figlia che ha bisogno, dopo tanto tempo, di sapere se il padre avesse alla fine scelto una delle due strade: continuare ad aiutare di nascosto i Gruppi d’Azione, oppure dedicarsi alla ricerca scientifica presso l’Università, sposando Silvia e crescendo quella bambina di cui non ha mai conosciuto l’esistenza.

Il lavoro di Mario Calabresi è stato meticoloso ma arduo e anche se tanti dettagli non saranno mai svelati, è stato in grado, secondo me, di rispondere almeno a questa domanda di Marta, restituendole un padre e un passato che il nostro paese le ha tolto. Il silenzio delle autorità, di una nonna che non aveva la forza di ricordare, di una mamma che ha dovuto andare avanti da sola, il rifiuto di familiari che per tanto tempo hanno cercato di estrometterla dal testamento, hanno trovato sfogo nella richiesta di una figlia senza passato e di un nipote sacerdote che sperava di poter comprendere e perdonare, unica via per guardare al futuro. Perché quando il silenzio nasconde la verità troppo a lungo, questa inizia a soffocarti e deve trovare la via per uscire e recuperare un po’ d’aria.

Quello che non ti dicono, alla fine te lo vai a cercare.


2 Comments

  1. Davvero! La sua capacità di descrivere quegli anni è unica e indiscussa. Sarà che l’ha vissuto in prima persona o che comunque ha una scrittura semplice ma evocativa! Ma non sbaglia mai.

  2. bel libro…. comprensibile, alla portata di tutti per capire com’erano quelli anni 70. Ancora una volta Mario Calabresi ha scavato nel passato.

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